Lo sappiamo. Viviamo in un’epoca che ha fondamentalmente abdicato ad ogni forma di riflessione culturale profonda. Ma non è di questo che voglio parlare. Basta lamentele, almeno per ora. Ciò di cui voglio parlare ha a che fare con l’alternativa possibile.
Di isole si è parlato spesso: un’isola felice, l’isola che non c’è, l’isola dei pirati; la metafora è abbastanza eloquente e diffusa: quella di uno spazio terrestre limitato, isolato e racchiuso nella sua identità da un elemento acquatico. Uno spazio che conserva e memorizza.
Ebbene, io ritengo che la forma privilegiata dell’alternativa sia appunto quella insulare. Sono in fondo seguaci di questa idea gli hacker che digitalizzano la cultura cartacea del passato, assumendo il ruolo di moderni amanuensi, scribi pazienti e ispirato di un sapere che la terraferma sembra dimenticare.
La dimensione dell’isola vive potenzialmente in collane letterarie, o filoni, o misconosciuti portali di neofiti, e via discorrendo lungo le possibili direttrici dell’originalità e dell’attenzione.
Nel mio caso, una delle impostazioni più necessarie per proporre il mio mondo culturale in forma di isola è esprimibile in una perifrasi.
Guardare al passato con gli occhi del presente significa deformarlo, e in definitiva dimenticarlo. Al contrario, dobbiamo sforzarci di contemplare i ritmi della storia riproducendo lo sguardo di chi li contemplava all’epoca. Solo così avremo modo di comprenderli, e dunque di renderli sensati nel presente.